Cronache di resistenza/2

Avere tempo, per farne cosa

“Quando la tempesta sarà finita, probabilmente non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo.

Anzi, non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero.

Ma su un punto non c’è dubbio…

Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato.”

 Haruki Murakami

In uno dei miei articoli precedenti, qui, ragionavo di come la nostra vita fosse piena di impegni e doveri scanditi da sovrastrutture stratificate dalle abitudini.

Il tempo era un ingranaggio stritolante che ci soffocava, un troppo pieno in cui eravamo sempre di corsa, e che lasciava poco spazio di manovra per potere anche solo ipotizzare un ritmo di vita diverso, o addirittura ipotizzare una vita diversa.

Fino a un mese fa. Prima.

Tutto questo prima. Prima che un virus come un proiettile microscopico si sparasse nelle gomme della nostra vita lanciata a mille all’ora, e la fermasse. Di botto, bum, fermi.

Qualcosa al di fuori del nostro potere e della nostra volontà ci costringe ora a fermarci, e ci si trova spaesati. E’ come scendere dall’auto con la gomma a terra in mezzo al nulla, e chiedersi: bene, e adesso che faccio?

Niente spaventa di più l’essere umano che il cambiamento, e l’ignoto che questo si porta appresso. La routine è rassicurante. C’è chi mangia baccalà in umido tutti i venerdì, pur che gli fa schifo da sempre; tutto ciò pur di scappare dalla domanda, e invece del baccalà al venerdì che mangio?

Tutte le domande che ci facciamo, in questi giorni, cercando rassicurazione, sono domande vecchie che non trovano risposte. Tutte le mappe fin qui usate, non rispecchiano più il territorio, e sono tutto ad un tratto inutili.

E allora bisogna fermarsi. Tirare un bel respiro, qui, anche più di uno, e non farsi prendere dal panico.

Ligabue in una delle sue canzoni diceva: e ti sei opposto all’onda, e da lì che hai capito che più ti opponi e più ti tira giù…

Ecco, opporsi al cambiamento è come volere nuotare controcorrente: si fa una fatica boia, si sta fermi e non si va da nessuna parte, e poi alla fine si va dove vuole la corrente. E prima lo si capisce, prima ci si adegua, più energie si salvano, e fatica e frustrazione, tanto alla fine là si deve arrivare.

Siamo tutti nella stessa situazione, per nessuno di noi la vita sarà come prima. Ne’ meglio ne’ peggio, sicuramente diversa. E in questo tempo sospeso che sono questi giorni, probabilmente mesi, in cui il mondo che conosciamo muta e si trasforma, una cosa certo che la possiamo fare.

Prepararci al viaggio nell’ignoto che ci aspetta.

Dobbiamo farlo, non c’è scelta. Perché dire tutto andrà bene, come si legge dai balconi, è consolatorio e fa piacere, ma significa tutto e nulla.

Pensare che tutto andrà bene, oggi, adesso, non significa che le cose magicamente saranno ok, o torneranno ad esserlo. Piuttosto, è costruire la consapevolezza e la fiducia che IO sarò ok, a prescindere di come andranno le cose.

In tutta questa baraonda, un regalo ci è stato fatto, ci è stato dato del tempo.

Usiamo questo tempo per prepararci: che significa significa prendersi cura di noi stessi perché saremo noi il capitano che terrà il timone. E i marinai lo sanno, comunque, che nessuna burrasca dura per sempre, e che se non si può decidere la direzione, bisogna governare e schivare gli scogli.

Prepararsi significa rafforzare le relazioni, perchè quelle saranno le gomene che terranno gonfie le nostre vele.

Senza fretta, tutto ciò. Che il tempo per questa preparazione c’è, se lo vogliamo: da qualche parte la prua bisogna pure puntarla, e terra ferma si troverà. Ricordiamoci che Colombo mica pensava di scoprire l’America, quando è salpato.

Vi voglio salutare con un’antica benedizione irlandese, un augurio per chi si apprestava a percorrere un cammino ignoto:

Possa la strada sollevarsi per incontrarti.
Possa il vento stare sempre alle tue spalle.
Possa il sole splendere caldo sul tuo viso.
E la pioggia cadere leggera sui tuoi campi.
E finché ci incontriamo di nuovo, possa Dio tenerti nel palmo della sua mano.